La Chiesa evangelizza con la BELLEZZA della LITURGIA

Andrea Grillo: Professore Ordinario di Teologia Sacramentaria presso la Facolta' Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo ... e molto altro

libera trascrizione di Giampiero Barbieri a partire dalla sbobinatura di Teresa

 

don Luciano

 

Noi siamo abituati a pensare che a parlare sui temi di liturgia, di sacra scrittura, di teologia siano sempre dei preti. Pian pianino stanno nascendo nella Chiesa delle vocazioni per cui chi studia, chi riflette e può aiutare un approfondimento ed una riflessione, sono anche dei laici. Abbiamo già avuto l'occasione di incontrare una teologa, donna, che ci ha parlato della Chiesa anche in modo molto profondo e appassionato. Anche questa sera facciamo questa esperienza e a parlarci non è un prete, ma un laico, uno sposo, un papà di famiglia, che ha sentito la chiamata ad approfondire, a studiare a riflettere sul mistero santo di Dio, sul come applicarlo, particolarmente su come comunicarlo attraverso la liturgia.

Non so come noi percepiamo la questione; nel tavolo di lavoro si sono manifestate opinioni diverse: (1) alcuni ritengono che la forma della celebrazione, come sta avvenendo nelle nostre comunità, sia già di per sé significativa e che, caso mai, sia necessario agire sulla fede di chi partecipa perché se chi partecipa alla celebrazione ha una fede attenta, viva, allora riuscirà a comprendere e ad immedesimarvisi, vivendo così in maniera significativa l'esperienza della preghiera, l'esperienza della celebrazione. (2) Altri invece hanno manifestato la necessità che la forma della liturgia sia maggiormente parlante, capace cioè di utilizzare un linguaggio che intercetti, che interessi quella capacità di comprensione delle persone oggi, nella nostra società, nella nostra cultura. Ecco allora occorre pensare a come si celebra, affinché quella celebrazione diventi significativa. Occorre pertanto intervenire sul linguaggio liturgico.

Certamente percepiamo tutti che diminuiscono le persone che partecipano alla celebrazione perché diminuisce la fede, prima di tutto, ma forse non soltanto questo. Le persone oggi vogliono star bene, non conta più semplicemente il dovere. Oggi il senso del dovere non è più sufficiente a portare la gente al nostro incontro domenicale. Occorre infatti che sia anche un'esperienza di bene, di bellezza, che faccia star bene, che dia qualche cosa, perché non basta semplicemente uscire con il dire “ho adempiuto”, ma occorre poter dire esco e ne sono stato arricchito. Forse è anche questa l'esperienza che allontana. Tutti notiamo la difficoltà di proporre la partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale ai ragazzi del catechismo e alle loro famiglie e anche ai nostri giovani che pur partecipano gli incontri della pastorale giovanile.

 

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Andrea Grillo

 

Uno sguardo al recente passato

Mi trovavo di passaggio a Verona, mi lasciano in stazione e vedo che quando si esce dalla stazione ci si trova nel sagrato della Chiesa: di fronte c'è il Tempio votivo costruito negli anni 30 e che oggi ha una funzione decisiva per la vita della città, dal punto di vista ecclesiale. Io che avevo mezz'ora di tempo entro in quella Chiesa e mi accosto alla Parola di Dio: c'è un grosso leggio, mi avvicino e la prima lettura è tratta dal secondo libro di Samuele dove si dice che Davide danzava con tutte le sue forze davanti al Signore. Quando mai nella Liturgia uno pensa di fare una cosa con tutte le forze? Uno ci mette proprio quel minimo, siamo stati educati ad una liturgia iperstilizzata dove fai il gesto, ma è come se non lo facessi, ti muovi ma è come se non ti muovessi, guardi ma è come se non guardassi.

Noi qui – dal più vecchio al più giovane – siamo tutti dentro questa generazione, quello di cui vi parlo è vecchio di 4, 5 generazioni. Nessuno ha esperienza di questo, i nostri nonni erano appena nati che già queste cose erano cambiate, non formalmente, la formalizzazione è degli anni ’60, ma già negli anni ’20 e ’30 in tutta Italia c’era un grande fermento. La liturgia comincia a cambiare nelle coscienze della chiesa cattolica più o meno 110 anni fa, ai primi del ‘900, cioè 5 generazioni fa.

Se parliamo degli ultimi 200 anni siamo all’età di Napoleone, cioè 8 generazioni. Tronando indietro abbiamo due genitori, quattro nonni, otto bisnonni … in otto generazioni abbiamo 256 antenati, quindi da Napoleone ad oggi ognuno ha 512 persone a cui deve qualcosa. Quello che è in noi, chissà da dove viene, i nostri avi si perdono nell’anonimato, ma vivono in noi. La forza della tradizione è questo flusso nascosto (ne percepiamo solo una piccola parte) di cui dobbiamo rendere conto con la fragilità delle nostre parole, delle nostre testimonianze.

113 anni fa Pio X introduce le pratiche di prima comunione a cui noi siamo abituati (è stato Pio X a volere che la prima Comunione fosse fatta a 6/7 anni), le sue indicazioni non furono subito seguite e ancora nel 1939 veniva celebrata come nell'800. Come vedete, oggi diciamo papa Francesco dice una cosa, e la Chiesa non la fa. Pio X ha dato nel 1905 indicazioni sulla celebrazione del Sacramento della prima Comunione, ma 35 anni dopo si faceva ancora finta di niente.

Quando Pio X sogna un mondo di bambini e di adulti che fanno la comunione, lo pensa in un mondo in cui andare a Messa e fare la Comunione non è la stessa cosa, perché 100 anni fa, una cosa era fare la Comunione ed una cosa era andare a Messa. Quando Pio X dice che il bambino a 6/7 anni fa la prima Comunione, sta pensando che potrà fare la Comunione anche tutti i pomeriggi, suonando il campanello del parroco e facendosi dare la Comunione. Se capiamo questo, capiamo quanto sono nuove le cose che facciamo, anche se ci sembrano vecchie come la chiesa. Che si faccia la comunione nel rito eucaristico è una cosa recentissima per i cattolici, non per i protestanti.

Nell'800, Rosmini grande filosofo e grande teologo diceva, quando presentava le 5 piaghe della Santa Madre Chiesa: la prima grande piaga della Chiesa è la divisione tra clero e laici nell'atto di culto. Lui lo denunciava nel 1836-1838, noi lo abbiamo formalmente superato dal Vaticano II, ma ancora dentro la nostra esperienza di preti e di laici c'è, per il prete la tentazione che la liturgia la fa lui, e anche nelle migliori intenzioni di non farlo, per inerzia secolare, tende a dire “la Messa la dico io”. E il laico, per altrettanta inerzia secolare, tende a dire “la Messa me la dice il prete, io vado lì e assisto alla Messa”. Questo modello deve cambiare, ma non deve cambiare nelle teste, deve cambiare nei corpi ed è questa la cosa affascinante che è iniziata 50 anni fa e lentamente si sta muovendo, sta trasformando la corporeità ecclesiale dei preti, dei religiosi e dei laici. Questo è un fenomeno di generazioni.

 

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La riforma del Concilio Vaticano II

 

Prima Giovanni XXIII e poi Paolo VI ed i Padri Conciliari, riprendono i progetti di Pio XII che ha iniziato a fare la riforma, ma non dalla forma delle ampolline o sul come addobbare la Chiesa, ma ha riformato prima la veglia pasquale e poi la Settimana Santa. È partito dal cuore, quindi noi assistiamo già ad un grande cambiamento tra il '51 ed il '56, cambiamento che riguarda il cuore liturgico.

Il secondo passaggio lo voglio fare con voi: noi abbiamo ricevuto, il nuovo messale romano 50 anni fa (entra in funzione nel 1970). Sappiamo però che già nel '65 si cominciava a celebrare con l'altare girato verso il popolo ed in italiano. La riforma è stata chiesta immediatamente, ancora prima della fine del Concilio, perché era tanta l'urgenza di fare entrare tutti nel rituale cristiano: questa è la vera novità e questo è un punto teorico fondamentale.

C'è chi dice la liturgia è stabile e non si tocca, occorre rinnovare la fede: quando si entra in difficoltà con la liturgia, l'unico modello su cui lavorare è la fede. Il Concilio in realtà non dice questo, il Concilio afferma che bisogna intervenire sui riti, quindi fare la riforma, per permettere ai riti di diventare il linguaggio di tutta la Chiesa e non solo dei preti. La riforma è fatta perché all'interno del rito Eucaristico, dentro il rito battesimale, penitenziale, l'unzione dei malati, l'ordinazione, il matrimonio, l'anno liturgico, la liturgia delle ore, possano starci tutti i battezzati.

L’enciclica di Pio XII del 1947 “Mediator Dei”, la prima che parla di liturgia, usa l’espressione “fidelium partecipatio”: come si partecipa alla messa? Avendo nell’animo gli stessi sentimenti del Cristo. È una definizione puramente interiore. Questo rende possibile che mentre il prete dice messa, si può partecipare dicendo il rosario, altri dicendo la novena, altri leggendo la scrittura, altri con letture spirituali. Questo non solo era normale, ma fatto anche nei seminari, mentre si diceva la messa il padre spirituale faceva la meditazione. Il fedele faceva devozioni parallele, salvo durante la consacrazione, ecco il perché del campanello.

Il Concilio dice: quando si celebra l’eucarestia, tutti fanno una sola cosa. Non si dovrebbe confessare durante la messa, non siamo in un ufficio pubblico con tanti sportelli. Nel rito eucaristico tutti comprendono tutto “per ritus et per preces”, che sono comuni a tutti. Non ci rendiamo ben conto che questa parola è stata scritta nel 1963. Il Concilio mette in comune l’atto, sotto la presidenza di chi presiede, con il ministero di che serve, con la celebrazione di tutti. Il presbitero presiede ad una celebrazione che non è sua, lui solo presiede, ma l'atto celebrativo non lo fa solo lui , lo fa una comunità, quindi ha bisogno di mettere in moto meccanismi comunitari.

Siamo dal primo segno di croce all'ultimo, autori di un atto di cui tu siamo parte. L'assemblea che celebra, è parte del mistero che si celebra, non sta di fronte al mistero che celebra, ne è parte. Lo diceva sant'Agostino definendo l'Eucarestia. Agostino definiva il Pane Eucaristico : "siate quel che vedete, ricevete quel che siete". In queste parole Agostino ha detto la verità dell'incontro con il Signore in cui ci trasformiamo. Diventiamo Corpo di Cristo :la comunione nella Messa è proprio questo, è il mistero di chi ha partecipato in modo così radicale per cui Cristo non è semplicemente quello che è sull'altare ma quello che è dentro la Chiesa, è la Chiesa. Tutti celebrano, alcuni esercitano un ministero, uno presiede. Grande novità che mette alla prova il nostro linguaggio.

I vangeli ci dicono del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Non solo – cosa inaudita – col battesimo diventiamo parte della famiglia trinitaria (fratelli di Gesù con adozione a figli). Senza perifrasi “siamo parte costituente del mistero”, in noi c’è la scintilla del divino, nonostante le cattiverie nostre e quelle del mondo. Alla messa dunque non siamo solo osservatori o ascoltatori, facendo parte del mistero che si sta celebrando, tutta la comunità concelebra. Il sacerdote presiede (è un ministero), il lettore proclama (è un ministero ...) [n.d.r.]

 

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Osservazioni pratiche

 

(1) Il canto ha tantissimi livelli su cui deve essere apprezzato, e il primo è il ritmo. Diamo ritmo ai nostri corpi. Possibile che a Natale si senta cantare “Tu scendi dalle stelle” come una nenia soporifera? Nel canto il ritmo è fondamentale, perché dare il ritmo vuol dire essere una comunità. Il ritmo del canto è comunità di vita. Sono cause ed effetti incrociati. Se ci provi, quando tieni il ritmo riconosci che è fare esperienza del corpo di Cristo. Perché il canto – diceva Agostino – è pregare due volte. Cantare col gusto di farlo.

L’esperienza nuova è fare la comunione nel rito di comunione. Un liturgista dell’epoca di Pio X che viveva a Parigi diceva “qui puoi fare la comunione quando vuoi, mai durante la messa” (1903). Oggi tutti facciamo la comunione nel rito di comunione. Il rito di comunione comporta una processione, ma l’esperienza non è processionale, è l’esperienza di una coda. Dobbiamo riempire di senso spirituale questo atto. La spiritualità è quella delle gambe, del corpo, del ritmo della musica. Per questo c’è il canto di comunione. Nella processione c’è un elemento di danza, si va comunitariamente verso l’altare.

(2) Inizio della messa, riti di ingresso e ancora prima raduno. L’arte del celebrare comincia dall’arte del raduno. Lo scandalo è che la chiesa non è un posto privato, né un posto pubblico, essa è il luogo della esperienza comunitaria, che non sappiamo come portare. Sappiamo stare in pubblico, in privato, meno a scuola. Se in una casa uno arriva e si siede là nell’angolo, dici “c’è qualche problema?”. Lo spazio parla, e in chiesa tendiamo a non farci caso, e quando reagiamo diciamo “tutti qui davanti”, reagiamo come in caserma, che forse è un rimedio peggio del male.

Il popolo di Dio deve arrivare a sentire che se siete in 10 in chiesa, e i due più vicini sono a 7 metri, c’è un problema. Dietro a questo sta il modello “io vado a messa per conto mio”. Riconvertire lo spazio vissuto come spazio comunitario, questo è un lavoro che chiede più generazioni, dovremmo cominciare ad insegnarlo ai bambini.

Noi diciamo “cammino di 1^ comunione, ma è perché la pensiamo come Pio X, in realtà è una iniziazione alla partecipazione della liturgia eucaristica. Non è la prima comunione, è la prima partecipazione piena alla celebrazione eucaristica, che comincia dalla sapienza di prendere il posto, e del silenzio che crei prendendo posto. C’è un gusto nel creare – dal brusio inevitabile del saluto – il silenzio. Non c’è liturgia che non cominci e non finisca nel silenzio. Se finisce in un modo diverso è un’altra cosa, è un comizio, una festa, un ballo. Per creare silenzio ci vuole un certo stile. Riusciamo a insegnarlo ai bambini solo se lo facciamo anche noi. Qui c’è un grande valore, che non è disciplinare, ma misterico. Per far sì che la chiesa si riconosca come corpo di Cristo, deve ascoltare la parola, non dirne, si mette nella posizione di ascolto.

(3) Imparare ad ascoltare. Quando la messa era in latino, si dava il foglietto in italiano, ora tutto è italiano e perché si dà il foglietto? Col foglietto si segue la lettura, non si ascolta. Il sussidio stampato dà il programma in sintesi. Ma se lasci il foglio, ognuno ha il suo rapporto con Isaia, col salmo. Infatti c’è scritto sul foglietto “non si legga durante la liturgia”. nel momento di ascolto della parola lavorano gli orecchi e non gli occhi. L’esperienza di comunione dell’ascolto non la si fa con l’organo della vista. Questo è compito delle prossime due generazioni. L’atto di ascolto in comunione lo sappiamo fare benissimo, davanti alla televisione è continuamente così. La pubblicità vende biscotti, shampoo con atti di ascolto formidabili, ma Isaia no. Non è che da una domenica all’altra fai il salto, è un processo.

Qualcuno può dire che questo lo può fare se chi proclama, proclama davvero, ma questo è un ministero ecclesiale. Quando c’è la liturgia eucaristica questa ministerialità deve essere già stata predisposta, non si può improvvisare. Non deve esserci un boss che decide, ma deve essere gestito da una ministerialità autorevole. Chi bene ha meditato e studiato la lettura, può anche proclamarla, in modo che gli altri non debbano leggere. Per arrivare a questo ci vorranno 50 anni, due generazioni. Basta pronunciare bene le parole, non avere fretta, lasciarle risuonare, rispondere col canto.

La parola, il salmo, sono un annuncio inaudito, cui non si risponde con un atto burocratico. Questa è una fatica di crescita, lì c’è un grande valore.

(4) La messa è una serie di sequenze. I riti di ingresso, la liturgia della parola, professione di fede, preghiera per gli assenti, presentazione dei doni, preghiera eucaristica, riti di comunione, riti di congedo. La preghiera eucaristica è un crescendo, per cui l’ultimo amen potrebbe essere cantato, anche su tre quattro cinque voci, la tradizione lo ha vissuto così, quell’amen è la fine del mondo, l’inizio di un momento nuovo, che ti abilita ad entrare nei riti di comunione.

Per questo potrebbe essere una buona idea entrare alla sequenza gradualmente. Costruire l’iniziazione dei giovani come un cammino di progressiva entrata nelle diverse parti, uscendo da quella logica un po’ distorta che bambini e ragazzi del catechismo “debbono” venire a messa. Peccato che questa richiesta è proprio a ciò che formi quelle persone, il bambino non è che viene a fare la comunione, viene iniziato a percorrere la marcia lunga della iniziazione. I primi ad aver bisogno di catechismo sono i genitori, in genere sono analfabeti. Ai ragazzi che accedono al catechismo la prima volta chiediamo per tre mesi di presenziare solo ai riti di ingresso, poi volendo fino in fondo, ma se volete anche uscire prima.

Questo da un lato abbassa il livello della pretesa, ma dall’altro ne alza il livello di bontà. La comunità, quando ha con sé questi che stanno camminando. A volte i riti di ingresso sono tenuti talmente bassi che sembrano la premessa della premessa. Il primo gesto di approccio all’altare è fisico: ti inchini e appoggi le labbra, è un gesto di tatto, una cosa finissima dal punto di vista dell’arte del celebrare. Questo atto, quando fatto pienamente, cambia completamente il clima. Nella celebrazione è previsto un certo tono, un certo rapporto con tutti i sensi, il tatto, il gusto, l’olfatto. In questo senso si può inserire anche la sfida della comunione sotto le due specie.

 

 

 

(5) Due specie, tema tabù. Il Concilio Vaticano II dice che per la pienezza del segno sono necessarie le due specie. Diciamo di solito sotto la specie del pane, sotto la specie del vino, è un linguaggio metafisico. In realtà invece si fa la comunione con l’unico pane spezzato, con l’unico vino versato. Spesso tra chi concelebra alcuni mangiano e bevono, altri intingono. L’atto è mangiare del pane e bere al calice. Il mangiare l’unico pane e bere all’unico vino significa che c’è tra i fedeli un rapporto come in famiglia, di fratellanza, è un gesto di intimità familiare, è il gesto con cui Gesù beve con Giuda. La messa è fatta per una logica di salvezza, che è scandalosa, perché in quella logica l’estraneo è tuo fratello.

(6) Usiamo le particole, che sono cerchi, che in fondo sono degli interi. Ma perché mai non dovremmo ricevere un vero frammento? Un frammento di pane senza forma. L’intero fa pensare che il tuo rapporto col Cristo è diretto, nooo … è mediato dalla chiesa. Nel frammento c’è l’identità frammentata di Cristo e della chiesa, tu Lo ritrovi solo in comunione con gli altri, è un simbolo potentissimo, che noi abbiamo in qualche modo isolato dal calice e ridotto all’intero. Per avere veri frammenti, basta usare il pane che serve per quella celebrazione. Se avanzano, li riservi. Oggi si consacra con una logica, si distribuisce con un’altra. L’altare è il punto di passaggio, mentre noi abbiamo il tabernacolo non come riserva, ma come punto di partenza.

(7) La penitenza. C’è un paradosso: nel sacramento della penitenza non c’è più la penitenza. Le opere penitenziali spesso sono ridotte a una forma invisibile – 10 avemarie -, se uno ha bisogno di fare penitenza non può essere rimandato alla sua preghiera personale, devi rimandarlo a luoghi di preghiera comunitaria. Quando l’Innominato si presenta al cardinale, subito il cardinal Federigo gli chiede scusa “avrei dovuto venire io da te, non attendere che tu venissi”, ma poi gli dice “tanto avrai da riparare, tanto da disfare, tanto da piangere”. La gioia del perdono corrisponde al dolore del cambiamento. Se uno vuol cambiare, non può che soffrire (come quando si smette di fumare). Il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi. Dio perdona in un attimo, ma la chiesa e l’uomo hanno bisogno di anni per perdonarsi.

Questa verità ce la siamo dimenticata in un secolo e mezzo. Provate a pensare chi dà oggi le penitenze: dietologo, medico, l’allenatore, il personal-trainer, la televisione, normalmente non servono a niente, sono sistemi per vendere prodotti. Non dobbiamo edulcorare il fatto che per cambiare c’è uno spazio di sofferenza inevitabile, nella scuola, nel calcio, nella danza, nel pianoforte. Ogni conversione è accompagnata anche dalla sofferenza, e la chiesa questo lo deve sapere, e no lo fanno altri e spesso lo fanno peggio o in modo distorto.

La penitenza nel sacramento è una cosa importante, non standardizzata. La penitenza è lo strumento per rimettere in moto la realtà battesimale del soggetto. Per questo ci sono le celebrazioni penitenziali, gli ascolti di parola, i modi di cantare, che guardano a forme di vita in cui la chiesa accompagna i soggetti nella conversione personale. E questa è inevitabilmente differenziata.

(8) La lode, la preghiera, rendere grazie. Essa è al 90% saper pregare, sapere rendere grazie, saper benedire. Di lode parla la scuola e la chiesa. Noi non dicami mai “ti lodo”, diciamo “ti faccio i complimenti, le congratulazioni” per dire che uno ha visto una cosa buona, e nonostante questo sei contento (cioè senza invidia). Lodare è una grande virtù. Il bene dell’altro mi dà gioia? Questa è una grande esperienza religiosa.

Nel rendimento di grazie il bene tuo lo scopri come non tuo. Dire grazie fino in fondo è un’arte difficilissima. La liturgia è piena di rendimento di grazie. L’eucarestia è rendimento di grazie.

Benedire è un’arte quasi impossibile per il guidatore. Ci sono le varie maledizioni, alla coda, a quello che si infila davanti a te, vedi il mondo come una serie di nemici che ti impediscono di arrivare nell’ora che avevi in testa. Ora te lo dice il navigatore, è un grande ausilio per essere ancora più maledicenti. Riuscire a benedire dentro il traffico di una grande città, su un treno che accumula ritardo, sono prove di santità. Nel senso di vedere più lontano, non è che la gente rallenta a caso, c’è stato un incidente, c’è un sovraffollamento, non c’è mai un motivo futile, c’è sempre qualcosa di serio che tu ti devi prendere addosso, cioè prendersi carico dell’altro.

La liturgia ci fa rivivere queste cose alla luce del istero, dentro il mistero, accomunando noi al nuovo Adamo, un uomo una donna capaci di piena fedeltà essendo pienamente liberi. Obbedienti fino in fondo nella libertà, liberi fino in fondo nell’obbedienza. Questo è possibile a ogni comunità.

Quando impari a rendere grazie, lodare, benedire, costruisci comunità. Nel prendere posto non nel modo pubblico, né privato. Faccio un esempio: veglia pasquale, messa più lunga dell’anno, rischi di non avere posto. Perché ti dicono che si comincia fuori. C’è chi dice “preferisco pregare in chiesa”, metà resta fuori, metà resta dentro. Invece bisognerebbe farsi donare il posto. In pubblico lo prenoti, in privato c’è il tuo, in comunità te lo danno.