Colui che mangia me, vivrà per me - Gv 6,51-58 Ci colpisce nel vangelo l’insistenza con cui Gesù utilizza il termine “la sua carne”, per richiamare la reale e concreta presenza del suo corpo, e anche ci colpisce il suo insistere sulla necessità di mangiare la sua carne. Da queste parole abbiamo tratto la convinzione che nell’Eucarestia c’è veramente Gesù con tutta la sua persona, e della necessità di accostarci a ricevere questa presenza mangiando il suo corpo. S. Antonio ha particolarmente testimoniato la fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucarestia. Il gesto dell’accostarci con la comunione a ricevere il corpo di Gesù è in realtà più complesso e più impegnativo del semplice gesto meccanico del mangiare il pane diventato sacramento della sua presenza.
Giovanni 6,51-58 : « «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». » Quando noi siamo chiamati a parlare di noi stessi, non ci accontentiamo di dire: “Io sono alto tanto, sono di costituzione robusta, ho pochi capelli castani, gli occhi verdi”. Noi siamo il nostro corpo, ma non siamo definiti soltanto dalle misure e dalle caratteristiche del nostro corpo; dicono molto di più di noi, le cose e le persone che amiamo, la musica che ascoltiamo, le situazioni per cui ci appassioniamo e anche quelle per cui ci arrabbiamo. Ciò che è più proprio di noi, ciò che maggiormente ci definisce è come siamo dentro, come siamo nell’anima. Noi siamo il nostro mondo interiore: i pensieri che elaboriamo, i valori che poniamo a fondamento delle nostre scelte, le nostre emozioni. Il nostro mondo interiore resterebbe però irraggiungibile, se non riuscissimo a manifestarlo attraverso il corpo. Utilizzando il corpo, noi manifestiamo chi siamo. Anche senza parlare si vede il nostro stato d’animo, dal nostro arrossire o impallidire, dal nostro piangere o ridere. Ci sono situazioni nelle quali per dire ciò che stiamo provando in quel momento, il sentimento che ci abita, servirebbero mille parole; allora certi gesti sanno spiegare molto meglio e più immediatamente il nostro mondo interiore. Questo è particolarmente vero nella relazione d’amore: come potrebbe una mamma o un papà spiegare l’amore che prova per un figlio? Naturalmente basta un abbraccio, e quel sentimento inspiegabile dell’amore si rende visibile. Per nessuno possiamo separare il corpo dalla persona. Anche per Gesù, il suo corpo (la sua carne) era la visibilità del suo essere interiore, e poiché il cuore di Gesù era radicato nella relazione col Padre, il suo corpo era la visibilità di Dio; per questo Gesù dice a Tommaso: “ Chi vede me, vede il Padre”. Chi guardava Gesù vedeva il suo corpo, ma proprio attraverso il suo corpo si rendeva visibile la relazione col Padre, relazione alla quale Gesù attingeva. Con tutta la sua vita Gesù ha reso visibile Dio: quando si è chinato sull’umanità ferita dal male, quando ha offerto il perdono ai peccatori, quando ha abbracciato i bambini. C’è però un momento culminante della vita di Gesù nel quale la sua relazione col Padre si è resa visibile nella sua umanità, fino a imprimersi nelle ferite della sua carne. È il momento della croce, quando di fronte alla sofferenza della passione ha rinnovato la sua fiducia nel Padre, quando ha continuato a vivere l’amore mentre i chiodi si conficcavano nella sua carne. Agli apostoli, nell’ultima cena, ha voluto anticipare in un segno quel dono che avrebbe fatto per tutti sulla croce. Quell’amore altrimenti indicibile l’ha reso visibile e incontrabile in un pane spezzato e condiviso diventato Suo corpo, sacramento del suo amore donato. Attraverso il sacramento dell’Eucarestia è dunque possibile vivere la richiesta di Gesù che scandalizzava i giudei, quella cioè di mangiare la sua carne. È evidente che non possiamo intendere il comandamento di Gesù, di nutrirci dell’Eucarestia, riducendo questo ad un gesto meccanico ed esteriore. Mangiare la sua carne è invito ad assumere quella vita di Dio che si rende visibile nella persona di Gesù. Al gesto esteriore di accostarci all’Eucarestia, deve corrispondere il far entrare nella propria vita l’amore che essa esprime e contiene. Senza la disponibilità a questa trasfigurazione, senza la disponibilità a essere assimilati a quest’amore, il dono di Gesù rischia di essere vanificato. il Parroco |