Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. Mt 18, 15-20
« In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Apriamo oggi un nuovo capitolo del vangelo di Matteo, nel quale è raccolto l’insegnamento di Gesù ai suoi discepoli, che insieme formano una comunità. Quando si vive insieme ad altri può succedere, magari involontariamente oppure in modo consapevole, che una persona dica o faccia cose che giudichiamo sbagliate. Può addirittura accadere che ciò che l’altro ha detto o fatto, costituisca una offesa da cui ci sentiamo feriti. Nel brano che abbiamo letto, Gesù suggerisce una strategia da mettere in atto in questa circostanza. Come risposta all’offesa arrecata, propone un percorso graduale di correzione e di riconciliazione. Più che soffermarci sui vari passaggi del procedimento, a noi interessa cogliere lo spirito sotteso a queste indicazioni, che a mio avviso, è contenuto nel fatto che l’altro che ha offeso continua a essere chiamato: “fratello”. Ogni giorno, o potremmo dire ogni momento, noi veniamo a contatto con altre persone. Molto spesso l’altro che avviciniamo fa parte della famiglia, a lui ci unisce il legame di parentela, è naturale vederlo come amico. Altre volte avviciniamo degli estranei che casualmente incrociamo sulla nostra strada. Verso gli altri proviamo simpatia, che a volte può diventare amicizia; altre volte passiamo accanto ad altri con indifferenza perché siamo presi e preoccupati dei nostri problemi; a volte guardiamo verso di loro con ostilità perché li sentiamo come una minaccia, un ostacolo alla nostra serenità. Le trasformazioni che stanno avvenendo nella nostra società, sempre più fanno sì che l’altro che incontriamo sia una persona diversa per colore della pelle, per provenienza etnica e per cultura. La parola di Gesù risuona ancora come scomoda, poiché contrasta con il modo di valutare suggerito dalla propensione naturale, che ci inviterebbe a guardare con diffidenza o con ostilità, a sottolineare i rischi, a mettere in campo paure; invece dobbiamo usare per l’altro il termine di “fratello”. Io penso che Gesù ci chieda di guardare a ogni altro come a un fratello in forza della relazione di tutti con il Padre, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Il vangelo di questa domenica però ci chiede di guardare come un fratello ogni altro, uomo o donna che sia, che ha risposto alla chiamata di seguire Gesù ed è diventato suo discepolo. L’accettare di diventare discepoli di Gesù stabilisce un legame con il Maestro e nello stesso tempo stabilisce un legame con tutti coloro che camminano sulla medesima strada; questo legame costituisce la Chiesa. Il legame che unisce i discepoli nella chiesa non è basato su ragioni umane, come potrebbe essere lo stare bene insieme perché si condividono gli stessi ideali, non è neppure il bisogno di essere in molti a propugnare le stesse idee. Ciò che lega insieme i cristiani è Gesù, che unisce i suoi discepoli e li rende tra loro una cosa sola: dove due o più sono riuniti insieme, lì Gesù è presente. È l’amore stesso di Dio, che donato da Gesù ai suoi discepoli, li lega tra loro in un vincolo che ha come fondamento Dio stesso. L’altro è fratello non per la mia simpatia, ma perché nella fede vedo in lui la presenza di Dio. Poiché Gesù è il fondamento della relazione che unisce i discepoli, proprio da Gesù occorre imparare i criteri dell’amore reciproco. Il modo di amare di Gesù è totalmente diverso dal modo umano di amare: mentre l’amore umano nasce dal vedere nell’altro qualità che attirano l’amore, l’amore divino è creatore, ama infatti perché vuole creare il bene nell’altro, sa amare anche dove il bene non c’è, sa amare anche il nemico. È questo amore che sa riprodurre sulla terra i legami del cielo. Questo amore fa si che non si resti indifferenti verso il fratello che sbaglia, che è fragile, ma fa sentire che l’altro ci interessa perché è parte di noi, perciò non possiamo passare oltre. |
il Parroco |