LA GIOIA DEL VANGELO: GIOIA ACCOLTA E DONATA  – 17 dicembre 2014

Le relazioni buone dentro la Chiesa (EG 1-2) - di don Gero Marino

 

"C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» [...] I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro."   Lc 2,8-12.20

Mi pareva che questo testo ci potesse in qualche modo, pur nella sua prevedibilità, aiutate a collocare la riflessione piccola, semplice, molto fragile che faremo stasera, all’interno comunque del contesto liturgico; abbiamo iniziato la grande novena del Natale, e questa novena è già essa stessa un invito alla gioia. I vostri preti mi hanno dato questo titolo “La gioia del Vangelo accolta e donata – le relazioni buone dentro la chiesa”; tenteremo di legare queste due espressioni che di per sé potrebbero anche, come dire, camminare per conto loro; eppoi mi è stato dato il riferimento ai primi due numeri della Evangelii Gaudium, questo per dire il contesto della riflessione di stasera, che non è semplice, mi ha un po’ intimorito il tema che mi avete dato.

Mi piace proprio cominciare a leggere proprio alcune righe (avete scritto Evangelii Gaudium n°1 e n° 2, cioè l’inizio, come evidente):

N°1: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.”

Già queste righe non sono banali, perché in qualche modo, dicevo prima, ho spaventato qualcuno, questa sera parleremo di tristezza, in qualche modo parleremo anche della tristezza, perché la gioia del Vangelo ci libera da queste quattro realtà “dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento”; e allora, in qualche modo, la gioia del Vangelo sgorga fuori anche da questa realtà, ci è data ma sgorga fuori e ci trae fuori da queste realtà.

La n° 2 conferma questa lettura e dice:

N°2: “Il grande rischio del mondo attuale … è [il rischio di] una tristezza individualista” … allora quale gioia nel tempo della tristezza, paradossalmente la domanda diventa questa; quale gioia nel tempo delle passioni tristi (per dire il titolo di un’opera famosa di un autore francese), nel tempo della passione individuale. Teniamo presente, lo dico un po’ a battuta, quello che ci veniva detto ieri sera da Benigni “anche l’amore è un comandamento”, il più grande dei comandamenti; ebbene, perché citavo Benigni? Perché non solo l’amore, ma anche la gioia è esattamente comandata dalle scritture.

Fil 4,4-7 “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto, siate lieti”

E quindi la gioia è comandata, è un comandamento, e anche questo è molto strano, come si può comandare l’amore? Come si può comandare la gioia; qualche volta io non ho nessuna voglia di essere allegro, e credo anche tanti di voi; qualche volta abbiamo il cuore stretto, gli occhi gonfi – e Paolo dice “state lieti” – e poi continua – “la vostra amabilità sia nota a tutti, il Signore è vicino”, è come se questa espressione “il Signore è vicino” diventasse la motivazione di questo comandamento della gioia “non vi angustiate, ma in ogni circostanza fate presente a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti”.

Ecco, introdotto così il tema, tento di raccogliere cinque pensieri, cinque passaggi che ci possono portare anche poi alla fine al tema delle relazioni buone all’interno della chiesa. Il primo passaggio lo ho già accennato subito, fin dall’inizio, dicevo:

 

Una tristezza individualista

Questo è il nostro tempo, il tempo della tristezza individualista, delle passioni tristi. Notate che il papa dice (non l’occasione di una meditazione sociologica stasera, però sarebbe interessante guardare dentro alle parole che dice) [che questa tristezza]

1) scaturisce dal cuore comodo e avaro

2) dalla ricerca malata di piaceri superficiali

3) dalla coscienza isolata

Quando noi attraversiamo queste situazioni, la conseguenza è appunto la tristezza individualista di cui dice il papa, forse il male del nostro tempo; dicevo l’epoca delle passioni tristi, Nietzsche direbbe “le vogliuzze dell’ultimo uomo”, qualche volta viviamo di vogliuzze, di piccoli desideri. Ritorniamo un attimo, su questo primo punto, all’evangelo, la bellezza di questo testo, che ci aiuta a capire come da questa situazione di una tristezza individualista forse è possibile per grazia uscire; attenzione bene, perché certo la gioia è un comandamento “state lieti”, ma non è un comandamento al quale posso obbedire con l’impegno della volontà, è un comandamento al quale posso obbedire soltanto per grazia; solo per grazia posso obbedire al comandamento; esattamente come i pastori del vangelo “dimoravano all’aperto nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge”, ecco chi sono i pastori, sono dei vigilanti, sono dei veglianti, di notte facevano guardia al loro gregge, “ed ecco un angelo si presentò loro e la gloria del Signore risplendette intorno ad essi”, sono come avvolti di luce, la gioia del Signore risplende attorno ad essi, ed essi furono presi da grande paura, ma l’angelo disse loro non temete”.

Parlare di tristezza, in realtà nel vangelo è esattamente così “furono presi da grande paura”; la paura e la gioia, la tristezza e la gioia; siamo noi che troppo facilmente mettiamo un muro tra queste sensazioni emozioni diverse; in realtà occorre attraversare la tristezza e la paura, per fare esperienza della gioia che ci viene donata. “Vi annuncio una grande gioia, oggi nella città di Davide è nato per voi un salvatore, e questo vi servirà di segno, un bambino fasciato, coricato in una mangiatoia”; e allora quale gioia? La tristezza individualista, il coraggio di vegliare, essere avvolti di luce, andare a vedere un segno di estrema piccolezza un bambino deposto, coricato in una mangiatoia. Ecco la gioia del vangelo – mi pare, ci chiede di passare attraverso questi passi, questo cammino; la gioia del vangelo non è impegno della volontà, è un comandamento al quale soltanto per grazia possiamo obbedire. E però capite che allora, questo tipo di gioia non ci viene tolta, perché è la gioia che ha anche attraversato l’oscurità – cito la liturgia della festa grande di tutti i santi – “i santi, 144.000, sono quelli che sono passati attraverso la grande tribolazione, e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello” . sono passati attraverso la grande tribolazione, è la gioia che attraversa la paura, è la gioia che attraversa la tribolazione; permettetemi, la gioia del Natale – ci piaccia o no – non è la gioia televisiva, non è la gioia delle luci televisive, non è la gioia di questo modello idilliaco di famiglia, delle famiglie di cui la televisione ci parla in questo tempo, in cui il broncio non c’è, il sorriso è sempre pronto, in cui bambini e vecchi sono accolti senza condizioni.

Torno per un attimo al testo di papa Francesco “quando la vita interiore si chiude nei propri interessi, non vi è più spazio per gli altri, non vi entrano i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, e molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita”. Ecco, queste parole appunto non sono per renderci tristi, banalmente tristi, ma forse per farci capire che l’autentica gioia deve sgorgare anche dall’attraversare queste situazioni interiori di fatica e di scontentezza.

Il CENSIS, che non è una realtà ecclesiastica, diceva “in quest’anno gli italiani sempre più cinici, sempre più individualisti”. Talvolta dunque conviene partire da quello che siamo, non da quello che vorremmo essere, neanche partire – permettetemi – dalle belle frasi del vangelo; occorre qualche volta partire da quello che siamo, scontenti, risentiti; basta andare certe volte in un supermercato, in ufficio postale, in banca, per accorgersi di quanto la gente è nervosa, tesa, cinica; ecco questa è la tristezza individualista, dalla quale, in qualche modo, il vangelo della gioia ci vuole tirare fuori.

 

Una inevitabile tristezza

Ma c’è un passo ulteriore, una inevitabile tristezza; questa tristezza è un passo più bello rispetto alla tristezza individualista, che ci vede scontenti; se la tristezza individualista ci vede scontenti, perché l’uomo non è fatto per stare solo, la tristezza inevitabile ci rende saggi, ecco la bella notizia, ecco un pezzo di vangelo che vorrei dirvi stasera; c’è una tristezza inevitabile, che ci rende saggi. Se ieri ascoltando la notizia dei bambini del Pakistan non ci siamo un po’ intristiti, certo non siamo saggi; c’è una tristezza inevitabile che rende saggi; c’è una tristezza inevitabile che ci fa crescere e che diventa come la via della gioia. Lc 19,41-44 “quando fu vicino alla vista della città, pianse su di essa, dicendo se avessi compreso anche tu in questo giorno quello che porta alla pace, ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi”; è il pianto di Gesù su Gerusalemme; anche Gesù ha conosciuto questa inevitabile tristezza, vorrei dire questa sana tristezza, questa sacrosanta tristezza; c’è una tristezza che rende saggi e che apre la via della gioia. Credo che anche in questo Natale possiamo fare esperienza di questa tristezza che rende saggi.

Da dove nasce questa tristezza sapiente, forse nasce dalla mancanza, come i pastori che vegliavano attendendo, per i pastori – ci dicono gli esegeti – c’era persino la mancanza della possibilità di andare al tempio a pregare, non potevano forse osservare lo Shabbat, erano ritenuti, come dire, poco religiosi per il mestiere, per la vita che conducevano, mezzi briganti, forse; forse era questa la tristezza inevitabile dei pastori, non poter essere come forse avrebbero voluto, membri eletti del popolo di Dio. la tristezza che nasce dalla mancanza; ho scritto due o tre cose, due o tre aspetti di questa mancanza, c’è una inevitabile tristezza quando manca la pace, siamo tristi perché non c’è pace, perché non c’è pace in Siria, in Iraq, in Palestina, in Israele, perché non c’è pace per i bambini e per quelli che vanno a scuola in Pakistan, capite che è la mancanza di pace che ci rende tristi, la mancanza di pace … ma ancora, è la mancanza di giustizia che ci rende tristi, perché non c’è giustizia … ancora, è la mancanza di Dio, è l’attesa di Dio che ci rende tristi e desiderosi di Lui.

Abbiamo iniziato così, se ricordate, il nostro Avvento, con quello straordinario testo di Isaia “se Tu squarciassi i cieli e scendessi, perché ci lasci vagare, lontano dalle tue mani”, così inizia, la tristezza inevitabile con cui abbiamo iniziato l’Avvento, perché proprio questa tristezza inevitabile, che è ben diversa dalla tristezza individualista, proprio questa tristezza inevitabile è come aprire il nostro cuore al bene di Dio, è come quello spiraglio che permette alla gioia di Dio di venirci incontro, ripeto, è la tristezza dei pastori quella notte.

Poi non è nemmeno una tristezza consapevole, è una attesa, una apertura; ecco quello che mi pare che ci dica il vangelo dei pastori questa sera: un’attesa, un’apertura, un desiderio, questo è l’uomo, l’uomo è una creatura di attesa, di invocazione, di desiderio, l’uomo vale per quello che gli manca, l’uomo vale perché attende, vale perché desidera; e questo ci insegnano gli amici che ci accompagneranno al Natale, non solo i pastori, ma Elisabetta, Zaccaria, Maria di Nazareth, Giuseppe … i nostri compagni di strada, lo stesso Giovanni Battista del prime domeniche, i nostri compagni di strada verso il Natale ci ricordano questa dimensione inevitabile della nostra vita, l’attesa, la mancanza, il desiderio.

C’è una pagina di Giovanni al capitolo 16, che una pagina autobiografica in cui Gesù dice quella cosa bellissima “la donna quando sta per partorire è afflitta, è giunta la sua ora, ma poi non ricorda più l’afflizione perché è venuto al mondo un uomo“; è la tristezza della partoriente, è strana la tristezza della partoriente, che ha atteso per nove mesi piena di gioia, eppure è afflitta perché è giunta la sua ora, ma poi dimentica l’afflizione; capite perché vi dico che è autobiografico, perché questa pagina parla dell’ora di Gesù, l’ora di Gesù è la Pasqua, fa impressione che Gesù per parlare di sé parli di donne, ad esempio della vedova che getta nel tesoro del tempio i due spiccioli, e forse Gesù avrà pensato sulla croce “quella donna è profezia di ciò che mi è accaduto”, senza nulla trattenere, così era la vita di Gesù … o per parlare di sé parla della donna partoriente, Gesù è questa donna partoriente … ma noi siamo questa donna partoriente che attende …

E allora il terzo passaggio, ho detto una tristezza individualista, che rende scontenti, una tristezza inevitabile che rende saggi, ma allora un terzo passaggio:

 

La gioia donata dalla visita di Dio

Ora non parliamo più della tristezza, ma della gioia … la gioia che arriva, come quando la terra è stata vangata e finalmente arriva l’acqua e finalmente il seme può essere gettato. Il testo di Luca dice che la gioia di Dio appare sui pastori; lo dice in un modo bellissimo anche la lettera di Tito, un testo di Paolo che conosciamo poco, al capitolo 2, lo riascolteremo nei giorni del Natale “è apparsa la grazia di Dio”, è apparsa – vedete – la grazia, la gioia è qualcosa che appare, è qualcosa che si manifesta, è qualcosa che accade, appunto, la gioia di Dio ha la forma, la figura del dono, questa è la gioia.

A te che sei individualista e scontento, e nonostante questo cerchi di attraversare il tuo individualismo, a te che forse vivi la tristezza dell’ingiustizia, l’attesa, a te si manifesta gratis la luce, a te si manifesta gratis la gioia e la vita di Dio. Qualcuno di noi ha conosciuto quel grande prete, quel grande cristiano che è stato don Michele Do, don Michele continuamente diceva “la gioia non può essere cercata per sé stessa”; noi qualche volta cerchiamo anzitutto la gioia, lui diceva, citando anche san Tommaso, “gaudium de veritate”, è la verità va cercata, la gioia è conseguenza della tua ricerca della verità, è fruttificazione, è conseguenza di altro, è conseguenza di altro, cercatori di un senso, cercatori di un volto, cercatori di una verità; quando siamo cercatori così, grati come dono ci è data la gioia. La gioia non può essere cercata per sé stessa, può essere soltanto accolta, la gioia è come la luce che entra in una stanza buia.

Tento di dirlo con delle parole che siano vere, che possano perlomeno per un attimo entrare dentro di noi; mi pare che potremmo dire anche così. La gioia del credente è la gioia di chi sa che la propria vita è nelle mani di Dio, è la gioia di chi si abbandona, è la gioia di chi attende ma senza pretendere, è a gioia di chi sa che la propria vita è nelle mani di Dio. Questo tema straordinario, ma bellissimo – scusate ma ormai riesco soltanto a parlare a ruota libera dicendo le cose che mi interessano di più, ad una certa età, vedrete, si parla un po’ così – ecco, però il tema delle mani di Dio è un tema bellissimo, le mani di Dio, la vita del giusto è nelle mani di Dio; la gioia anche dolorosa, la gioia faticosa, la gioia anche quando non arriva, si può rimanere nell’attesa della gioia quando si sa che la vita è nelle mani di Dio, sono mani buone, mani che accolgono, mani che non tradiscono …

Allora potremmo dire in altro modo, la gioia del pieno abbandono, questa è la gioia del vangelo, la gioia del vangelo è la gioia del pieno abbandono, è la gioia di cui fa esperienza Gesù … Lettera agli Ebrei capitolo 5, è Gesù che grida con forti parole e lacrime per essere liberato dalla morte, la traduzione nuova è bellissima “e fu esaudito per il suo pieno abbandono” … permettetemi questa piccola chicca sul greco, in greco il pieno abbandono si dice eulabeia, letteralmente il pieno abbandono significa prendere in bene ogni cosa, ecco la gioia del vangelo, è la gioia di chi prende in bene ogni cosa, e impara a dire “che importa” tutto è grazia … prendere in bene ogni cosa, esattamente come Maria, che aveva i suoi progetti, e che l’angelo glieli rovina, e fatica un po’ a dire “come è possibile, non conosco uomo”, ma poi per il suo pieno abbandono dice “eccomi, avvenga per me secondo la tua parola”, la gioia del pieno abbandono, la gioia del prendere in bene ogni cosa – ma permettetemi, lo dico per esperienza, ciascuno di noi lo può dire per esperienza, questo prendere in bene ogni cosa non è il frutto di una strategia psicologica, e neanche dell’essere un po’ scemi che dicono che tutto va bene … no, se il bianco è bianco, è bianco, se nero è nero, non è la gioia del pieno abbandono quella di chi gli va bene tutto, eccoci, ci tengo a essere preciso su questo, il pieno abbandono non è l’atteggiamento di chi gli va bene tutto; il pieno abbandono è di chi riconosce che tutto diventa occasione affinché Dio possa fare della nostra vita una cosa bella.

 

Restituire, il verbo dell’adulto

Restituire è il verbo dell’adulto, ed è anche il verbo dell’autentico discepolo, gioia accolta e donata, così dice il titolo della meditazione di stasera, ma potremmo anche dire gioia accolta, restituita e trafficata. Oggi noi viviamo appunto nel tempo delle passioni tristi, che hanno bisogno, come dire, di trattenere l’allegria; oggi tentiamo individualisticamente di trattenere l’allegria, il piacere, di tenerlo per noi l’allegria e il piacere. La gioia non può essere trattenuta, può essere soltanto fatta circolare, messa in circolo, restituita. Ecco, questo dovrebbe essere il compito dell’adulto: trafficare quello che ha ricevuto, restituire quello che ha ricevuto, mettere in giro quello che ha ricevuto. E sappiamo quanto questo è difficile nel contesto culturale di oggi. Potremmo così dire allora, quasi a slogan, non solo la gioia non può essere cercata, ma nemmeno trattenuta, questo è il bello della gioia, un bello che pensavamo un po’ faticoso – la gioia non la puoi cercare, non la puoi trattenere. Ripeto a slogan - chiedo scusa in anticipo - se la cerchi non la trovi, se la trattieni la perdi; questa è la gioia, è una cosa strana la gioia - se la cerchi non la trovi, se la trattieni la perdi. Non trattenere la gioia, anche se tutti, io per primo, ne abbiamo la tentazione. Quando siamo stanchi siamo un po’ fragili, la vorremmo cristallizzare, ma la gioia non può essere trattenuta, è come la neve, che se la tieni troppo in mano si scioglie, o esattamente come la manna di Esodo 16, questo testo straordinario, come grande icona, per dire il senso della vita; ricordate che la manna, gli Ebrei cerano di trattenerla, di conservarla per il giorno dopo, ma esattamente diventa rancida; la gioia è come la manna, se cerchi di trattenerla solo per te diventa rancida.

La gioia è come la parabola dei talenti, non può essere messa sotto terra, né custodita in frigorifero. Ripeto, mi pare un momento di preghiere, di ritiro, però mi pare che la domanda sugli adulti, in particolare sui genitori, su chi ha responsabilità educative, chiediamoci se noi adulti qualche volta non siamo persone che pensano di trattenere solo per sé la gioia, e così rischiamo di perderla, di non farne esperienza. È il grande tema che oggi anche gli psicologi sottolineano, il tema della eredità, quale eredità trasmettiamo. Trasmettere una eredità significa perdere quello che possediamo, di dare ad altri ciò che possediamo. Il destino di ogni autentico adulto, ma anche la via del vangelo, è accettare di perdere tu la gioia perché un altro possa essere contento. E in questo entrare nella dinamica di perdere misteriosamente, per grazia, scopri che la gioia ti viene restituita. Per cui, davvero il Signore non ci frega … cito solo, pensate ad Abramo e Isacco, esattamente l’esperienza di Abramo, il figlio che finalmente arriva, e che quando arriva lo devi restituire, e dopo averlo restituito lo ritrovi, e diventa davvero tuo figlio soltanto dopo averlo restituito.

 

L’attesa come spazio di relazioni buone

Se questo è il cammino piccolo che abbiamo tentato di fare stasera, l’individualismo che rende tristi, l’inevitabile tristezza, ma la gioia che gratis ci viene data come la luce che entra in una stanza buia, la gioia che però non posso trattenere, che sono chiamato a restituire - del resto scusatemi, l’età mi fa fare tante parentesi – esattamente come i pastori, abbiamo letto solo il pezzo iniziale, qual è la cosa bellissima dei pastori, che dopo che sono andati, vanno a dire a tutti quello che hanno incontrato, non trattengono per sé, non rimangono – permettetemi – i pastori sono più bravi, più furbi di Pietro alla trasfigurazione che voleva fare tre tende, invece bisogna scendere, non puoi trattenere l’esperienza del Tabor, non puoi trattenere la gioia, la perdi … i pastori vanno.

Ecco, se questo è il percorso, cos’è allora la chiesa? Credo davvero che la chiesa sia uno spazio di relazioni buone dove la piccola gioia dell’uno alimenta la faticosa gioia dell’altro. Che cosa vuol dire relazioni buone? Non vuol dire che andiamo sempre d’accordo, non vuol dire neanche che ci facciamo caldo a vicenda. Relazioni buone vuol dire trafficare reciprocamente la gioia.

Leggo il n° 92 della Evangelii Gaudium, ma prima del n° 92 voglio leggere la nota in cui papa Francesca parla di Teresa, la piccola Teresa di Lisieux, è molto bello, è un episodio che forse conosciamo, e il fastidio che Teresa aveva con una sua consorella … “Una sera d’inverno stavo facendo, come di solito, il mio dolce compito per la sorella Lejemble, faceva freddo, stava facendo notte, improvvisamente ascoltai di lontano un suono armonioso di uno strumento musicale, mi immaginai perciò un salone molto illuminato, tutto splendente di drappeggi dorati, e in tale salone signorine elegantemente vestite si scambiavano complimenti e cortesie mondane – poi fissai la povera inferma a cui davo sostegno – al posto di una melodia potevo sentire ogni tanto i suoi gemiti pietosi; non posso dire quello che accadde nel mio animo, la sola cosa che so è che il Signore illuminò la mia anima con i raggi della verità, i quali superavano a tal punto il luccichio tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere al grado della mia felicità”.

È bello questo cosi, no? Perché le nostre comunità cristiane non sono come quelle signorine danzanti nel salone con tante luci, almeno non so a Sestri, ma di solito non succede così; certo non succede così nelle chiese più piccole e più povere, e neanche nelle chiese ricche dell’occidente. Forse la gioia di cui si fa esperienza, la gioia che ci viene data come dono, la gioia di questa tenerissima cura della piccola Teresa nei confronti della sorella malata … il papa poi commenta al n° 92, è un pezzo molto bello, “Lì sta la vera guarigione dal momento che il modo di relazionarci con gli altri, che invece ci risana invece di farci ammalare – quante comunità ammalate ci sono nelle nostre parrocchie – è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo – ecco cosa ci risana invece di farci ammalare – una fraternità contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme (con il tuo parroco, con i tuoi laici, con i tuoi catechisti), che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore di Dio per cercare la felicità degli altri, come la ricerca il Padre”. Ed ecco ancora le ultime righe “Proprio in questa epoca, dove i credenti sono un piccolo gregge, i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo. Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità.” Io credo che queste siano cose molto reali – non lasciamoci rubare la comunità – so che è facilissimo dire queste cose, e so quante volte sono scoraggiato io, quindi non ho niente da insegnare a nessuno, però spendiamo energie per costruire la comunità, perché lì troviamo la gioia, senza rimanere a guardare, senza dire cosa dovrebbero fare gli altri e cosa io non faccio mai.

Due sottolineature su questa comunità, che io sento particolarmente vere per me, la comunità che io sogno, la comunità che poverissimamente vorrei costruire dove io sono, che ha tra le altre queste due note, e poi concludo: innanzi tutto è una fraternità eucaristica, raccolta attorno all’eucaristia, non è una comunità psichica, direbbe Bonhoeffer, è una comunità spirituale, fraternità eucaristica raccolta attorno all’eucaristia, non è altra cosa. C’è quella espressione bellissima di Lumen Gentium al n° 9, che è delle più belle definizioni di chiesa che io conosco, il Concilio dice in una riga una cosa bellissima, che “la chiesa è l’assemblea dei credenti che guardano con fede al Signore Gesù”. E quando dico questo intendo l’assemblea eucaristica, guardare con fede al Signore Gesù significa essere raccolti attorno al pane spezzato, con tutto quello che ci sta insegnando papa Francesco in questi tempi, che non puoi riconoscere il corpo eucaristico di Cristo se non riconosci i poveri, sono la carne viva di Cristo. Quindi fraternità eucaristica non è alternativa a riconoscere la presenza di Cristo nei poveri – questa è la chiesa, l’assemblea che guarda con fede al Signore Gesù.

E l’altra nota che sento è la chiesa come incontro tra vocazioni ed esperienze diverse, convivialità delle differenze, per usare la parola di don Tonino Bello. Vocazioni, esperienze e anche età diverse – di nuovo questo tema quando parlavo di adulti e eredità, questo tema che è la trasmissione della fede. Il vostro titolo diceva “le relazioni buone nella chiesa”, io certo non sono capace di darvi istruzioni per l’uso, o di dire quanti sorrisi fare ogni volta che vi incontrate – mi pare che le relazioni buone nascono dal credere che la comunità oggi – Carlo Maria Martini diceva una rete di relazioni fraterne – sia un insieme di volti, di storie, di nomi, raccolta attorno all’eucaristia e ai poveri, dove le differenze di ciascuno sono riconosciute, rispettate, accolte, dove – permettetemi – non c’è un unico modo di essere discepoli, un unico modo oggi di essere cristiani. Ci sono gradi diversi di appartenenza, tutte rispettabili e da rispettare, tutte degne nella misura in cui sono le nostre. Anche lì di fronte a Betlemme, come di fronte alla croce, le presenze sono molto diverse, perché c’è Maria che è la tutta pura, ma ci sono i pastori che al tempio non ci andavano, ci sono questi adoratori di chi sa chi, che vengono dall’estremo oriente (i Magi), presenze diverse attorno a Gesù.

don Gero

 

 

 

 

 

 

ricordo di Carla Valleri Trovati
una fedelissima della catechesi pomeridiana del lunedì

 

Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo

(Carla Trovati Valleri e il marito con le figlie il giorno del 57° anniversario di matrimonio, 2011)

Un’altra figura preminente per la nostra comunità parrocchiale se n’è andata, una figura importante anche per la storia recente della nostra cittadina.

Lunedì 28 aprile 2014 è volata al cielo, dopo alcuni giorni di sofferenza, la prof.ssa Carla Trovati Valleri, già Preside delle Scuole Medie di Sestri. “La” Preside per antonomasia. Una scomparsa improvvisa, nonostante le 88 primavere compiute, a breve distanza da una delle sue collaboratrici a scuola, la prof.ssa Maria Alberta Magrini Pavani (sua Vice Preside per anni) e a poco più di un mese da Angelo Cagna, con cui ha condiviso l’impegno in parrocchia.

Il ricordo, anche negli ultimi tempi, nonostante gli acciacchi dell’età iniziassero a farsi sentire, è per tutti di una presenza viva, forte, apparentemente burbera ma sempre simpatica, con la battuta pronta, sagace, disponibile, attenta, partecipe (anche nella critica, comunque sempre costruttiva). Una di quelle persone che difficilmente passava inosservata e che rimane impressa negli occhi e nel cuore. La Preside Trovati Valleri ha dato espressione della sua vita in famiglia, nella scuola, in parrocchia.

In famiglia. Della presenza nel privato porteranno il ricordo il marito, Sig. Andrea, le figlie Valeria Viviana e Valentina, le nipoti Marta Benedetta e Federica, la sorella Pina e tutti coloro che, in diversi modi e in ruoli differenti, hanno avuto occasione di poter esserle più vicini.

Il suo impegno nella scuola. Insegnante di Materie Letterarie prima e poi Preside della Scuola Media Descalzo, in un momento – come ha ben ricordato don Luciano nell’omelia della celebrazione esequiale  – di grandi stravolgimenti sociali, con una presenza di alunni talmente alta da arrivare fino alla sezione N. La sua dirigenza scolastica ha lasciato il segno, con il polso e l’intelligenza di chi ha sempre tenuto in conto la necessità e l’opportunità di contemperare la disciplina con la comprensione, l’educazione alla vita con la cultura e la conoscenza; una dirigenza indubbiamente energica, ma sempre in piena collaborazione con gli insegnanti, attenta alle esigenze dei ragazzi e delle famiglie. La testimonianza di questo segno indelebile lasciato nel mondo della scuola è stata la presenza massiccia, si può dire enorme, sia al rosario sia al funerale di colleghi Presidi del passato e di Dirigenti scolastici attuali, di insegnanti di tutti i tempi, di collaboratori amministrativi e tecnici, di allievi. Bellissima la presenza in Chiesa la mattina del funerale di una rappresentanza della scuola, con la bandiera, a testimoniare (oltre alla vicinanza a Viviana, insegnante nella scuola della madre) un ricordo che prosegue nel tempo. Una dimostrazione che la famiglia ha avuto nell’incessante passaggio in casa per un saluto, un ricordo, una preghiera, per vederla un’ultima volta.

Il suo essere in parrocchia. Per moltissimi anni attiva presenza nel Centro di ascolto, nell’aiuto alle persone più bisognose, con la discrezione ed il rispetto che un compito così delicato richiedono ma anche con quella inflessibilità che l’aiuto alle persone nel bisogno chiama.

Assidua frequentatrice con il marito della catechesi di don Renzo, con cui scambiava vivaci opinioni sugli argomenti trattati, sempre aggiornata e desiderosa di approfondire ciò che magari già conosceva. Sempre presente alle attività del circolo ACLI. Animatrice e docente nei Corsi della Terza Età, quando le lezioni si svolgevano nei locali della casa canonica.

Il tutto in un rapporto bellissimo con i Parroci. Su tutti Mons. Giuseppe Bacigalupo con cui reciprocamente – anche per l’antica amicizia con il marito – tanto si stimavano. In questi ultimi anni con don Luciano, che ha dato testimonianza del suo affetto con la commozione con la quale ha ricordato la sua Preside di allora, lui giovane insegnante alle prime armi.

Presente in tutti i momenti della parrocchia, innanzitutto la messa domenicale delle dieci (sempre nel solito posto, nel corridoio di destra entrando in Chiesa, a metà della navata) e in una assidua frequentazione della messa feriale. Con un occhio di riguardo, sempre benevolo pur nella critica, all’attività del Coro (anche per affetto, vista la partecipazione familiare), che ha ricambiato con la presenza nel canto alla messa di esequie. Come pregato in una delle intenzioni della messa funebre, la comunità parrocchiale e la città non possono e non devono dimenticare figure come quelle della Preside Carla Trovati Valleri, che hanno profuso un impegno immenso in tutti i campi della vita.

Cristianamente, crediamo che “Nella tua pace, nel regno della luce, questa sorella Signore sia con Te

 

Catechesi anno 2017 - Massimo Recalcati - Enzo Bianchi

Catechesi anno 2016 - mons. Gero Marino - don Luciano - Arianna Prevedello - Raffaele Luise - suor Maria Gioia Riva - Gabriella Caramore - Serena Noceti

Catechesi anno 2015 - don Luciano - Massimo Recalcati

Catechesi anno 2013 - fra Luca Pozzi - Luigi Accattoli - Lorenzo Caselli